Letter of Valour: Virgilio Panozzo
Il coraggio di Virgilio Panozzo nel nascondere prigionieri di Guerra in fuga si è trasformato nel passaporto per una nuova vita in Australia. Questa è la sua storia.
Vedi anche la storia di sua moglie, Floriana Betello Panozzo, intitolata “Crescere ai tempi della Guerra”.
Verso la fine del 1943, auto tedesche cariche di soldati pattugliavano giornalmente le colline della zona di Conca di Tresche , un piccolo paese dell’altopiano di Asiago, nella provincia di Vicenza. Ispezionavano le colline che si affacciano sulla valle del Po.
Un giorno decisi di scoprire cosa stessero facendo. (Solo anni dopo venimmo a sapere che erano i “Geologi di Himmler” e che stavano preparando la costruzione di una nuova linea difensiva, la “Blau Linie”, come ultimo baluardo in caso di crollo della Linea Gotica.)
Presi i miei sci e uscii di casa avviandomi in direzione di Monte Cengio, lungo la val di Gievano, e di una collinetta nota con il nome di Forcella per non incappare nelle ronde tedesche. Sulla via per la Forcella passai oltre un avvallamento, sul fondo del quale si trovava un ricovero per animali diroccato, con muretti a secco e tettoia in metallo arrugginito.
Conoscevo bene la zona per il tempo passato a pascolare la mandria della mia famiglia in estate e mi sorpresi di vedere quattro giovani seduti al sole che leggevano.
Dopo l’8 di settembre (l’Armistizio italiano) anche le montagne dell’Asiago erano diventate luogo di ritrovo per i giovani che si rifiutavano di stare a sentire la propaganda dei Fascisti e dei Tedeschi, che li invitava ad unirsi ad un nuovo esercito (della repubblica di Salò) e continuare lo scontro con gli Alleati che avanzavano dal sud. Diventarono l’ossatura dei gruppi partigiani.
Avvicinai i giovani con un buongiorno: uno di loro rispose e il suo accento mi fece capire che erano stranieri. Gli chiesi da dove venissero: risposero “da Milano”, con un chiaro accento inglese e confermarono i miei sospetti.
Gli assicurai che non avrei fatto nulla contro di loro e provai a conversare un po’ in inglese. Mi accorsi subito che il mio livello di inglese era pari al loro livello di italiano. Conoscevo la grammatica ma avevo bisogno di far pratica. Riuscimmo comunque a cavarcela.
Mi raccontarono quello che potevano dirmi della loro storia: erano soldati inglesi presi prigionieri in nord Africa e imprigionati in un campo vicino a Verona. Erano scappati dopo l’8 settembre e si stavano spostando per la campagna aiutati da molti “sconosciuti”. A quel tempo non si facevano mai nomi. Avevano lasciato il loro ultimo nascondiglio pochi giorni prima per evitare di essere catturati dai Fascisti o dai Tedeschi e avevano perso contatto con i loro benefattori.
Le loro scorte stavano cominciando a scarseggiare e stavano cominciando a considerare di scendere al paese, dopo aver capito se c’era rischio di essere catturati. Due erano inglesi: Pat da Plymouth e Norman da Hull; due erano Neozelandesi, Richard e Lloyd, quest’ultimo, in parte Maori, dall’isola del nord.
Promisi di aiutarli. Sarei tornato il prima possibile con nuove provviste, se possibile la sera stessa dopo il calar del sole. Concordammo una parola d’ordine e ci salutammo.
Anche i miei genitori erano d’accordo: era nostro dovere aiutare quegli uomini. Si ritrovavano coinvolti da eventi che non avevano nulla a che fare con loro personalmente e avevano madri o mogli da cui tornare quando la guerra fosse finita. Mio fratello maggiore, Carlo, non era ancora tornato a casa dopo l’8 settembre ed era ancora nell’Italia del sud. Forse qualcuno si stava occupando di lui proprio come avevamo intenzione di fare noi con questi quattro soldati. Il cibo era scarso e razionato ma decidemmo di aiutarli ugualmente.
Quella sera ritornai carico di provviste. Quando li chiamai, alla luce della luna piena nella radura innevata, vidi ombre muoversi in tutte le direzioni. Ripetei il mio richiamo e tornarono tutti, anche se uno alla volta e a distanza di minuti.
Passammo la sera a parlare delle nostre famiglie e della guerra di fronte al fuoco. Erano circa le due quando tornai verso casa e serate come quella si ripeterono per il resto del mese. Dopo un paio di settimane feci spostare i fuggitivi in un altro posto, più lontano dalla città, per evitare che dessero nell’occhio.
La routine era partire di casa alle otto di sera e rientrare dopo le tre di notte. Ci volevano almeno tre ore di cammino su sentieri pericolosi fra le trincee della Prima Guerra Mondiale e le colline della Valdassa.
I nostri parenti e vicini erano felici di contribuire con tutto il cibo che potevano dare: i Tedeschi non avevano amici nella mia città.
Virgilio Panozzo, fotografato nel 1949
Alla fine dell’aprile del 1944, i soldati lasciarono la zona assieme ad un gruppo di partigiani per evitare i rastrellamenti dei Fascisti e dei Tedeschi. Mi lasciarono una lettera con i loro nomi, indirizzi, gradi e il racconto di quello che avevo fatto per loro, raccomandandosi di mostrarla alle autorità dell’esercito Alleato. Misi la lettera in una piccola bottiglia, la sigillai con la cera e la sotterrai sotto il gradino in pietra del nostro orto.
Dato che ero ancora minorenne (compii diciassette anni quattro giorni dopo aver incontrato Norman ed i suoi compagni) non dovevo unirmi all’esercito ed ero libero di muovermi. Con cautela però, perché i Tedeschi sapevano che i partigiani usavano ragazzi e ragazze come corrieri.
Un po’ di tempo dopo la partenza dei fuggitivi mi giunse voce che qualcuno aveva intenzione di riferire le mie attività ai Tedeschi. Per evitare ripercussioni alla mia famiglia me ne andai di casa e mi unii ad un gruppo di partigiani che avevo aiutato qualche mese prima e rimasi con loro fino alla fine della guerra.
La persona in questione non concretizzò mai la sua minaccia perché morì mentre stava investigando riguardo alle voci sui prigionieri inglesi. Fece ricatturare due prigionieri australiani nel novembre del 1944 ma questa volta la fortuna non era dalla sua parte.
Nel settembre del 1944 incontrai gli inglesi membri della missione “Fluvius”, che erano stati paracadutati nella zona in agosto per organizzare i partigiani per l’avanzata finale programmata per settembre. Il Maggiore John Wilkinson (Freccia) ne era a capo; gli altri membri erano il Tenente Christopher Woods (Colombo) e il Caporale Douglas Archibald (Arci).
Alla fine della guerra presentai la mia lettera al governatore americano a Vicenza.
Contemporaneamente scrissi ai miei vecchi amici e a breve mi risposero: Norman, Pat e Richard erano tornati a casa, ma Lloyd venne ucciso dai Tedeschi nell’agosto del 1944 mentre stava tentando di entrare in Svizzera.
Nell’ottobre del 1946 ricevetti una lettera dalle autorità inglesi che chiedevano di incontrarmi presso il municipio di Asiago il due dicembre: un ufficiale dell’esercito britannico avrebbe consegnato un certificato e una somma in denaro alle persone che aiutarono i prigionieri inglesi.
Il capitano che presiedette la consegna disse che quel documento sarebbe valso come lasciapassare nel caso in cui decidessimo di trasferirci in qualunque paese del British Commonwealth. Usai i soldi per riprendere i miei studi e iscrivermi all’Università di Padova.
Le memorie di Virgilio proseguono raccontando come, nel 1956, emigrò in Australia per stare con la sua ragazza, Floriana. Ad Adelaide superò un test per lavorare come disegnatore presso l’ufficio del Capo Architetto ma ci furono dei ritardi nel fissare l’appuntamento. Con i soldi che cominciavano a scarseggiare, riuscì a fissare un incontro con il Ministero del Lavoro.
Virgilio continua: “Decisi di ricorrere alla promessa fattami ad Asiago e mostrai il certificato ricevuto dal capitano inglese. Dopo una rapida occhiata, il ministro si alzò, fece il saluto militare e mi venne ad abbracciare, chiaramente emozionato. Dopo essersi ricomposto spiegò che anche lui era stato prigioniero di guerra, in Giappone, ma non aveva trovato un buon samaritano.
La nomina di Virgilio venne presto confermata. Si sposò con Floriana ed ebbero tre figli. Si qualificò come architetto e andò in pensione nel 1987. Lui e Floriana vivono ancora ad Adelaide ma la loro figlia Cathy vive in Italia. Ad Andrea Maiolla, amico di Cathy vanno i nostri sentiti ringraziamenti per aver portato alla nostra attenzione la storia di Virgilio.
Virgilio conclude scrivendo: “Dopo essere andato in pensione sono tornato in Italia. Quando ho visitato il luogo in cui si erano rifugiati i quattro soldati, mi sono reso conto che le uniche cose ancora visibili erano il pavimento della stalla e il vecchio caminetto. Tutte le pietre del vecchio edificio erano state usate per costruire una villetta a pochi metri di distanza.
Tradotto da Michele Ronchini