Così vicini eppure così lontani: Anthony Simkins
Il Capitano C.A.G. (Anthony) Simkins (1912-2003) prestò servizio durante la seconda guerra mondiale nel Nono Battaglione Rifle Brigade (compagnia fucilieri). Fu catturato dai tedeschi vicino a Derna in Libia il 7 aprile 1941, fu consegnato agli italiani e portato inizialmente in un campo di prigionia a Sulmona negli Abruzzi. Nel maggio del 1942 fu trasferito a Montalbo, a nord di Milano, e nella primavera del 1943 a Fontanellato, vicino a Parma.
A settembre del 1943, in seguito all’Armistizio, fuggì a piedi verso il sud dell’Italia.
Catturato nuovamente vicino alle fila degli Alleati, fu portato in Germania, al protettorato cecoslovacco e fu infine liberato ad aprile del 1945 in un campo vicino a Brunswick.
Le memorie di seguito riportate sono state scritte nel 1983.
Curiosamente non ricordo come o quando esattamente la notizia dell’Armistizio ci raggiunse a Fontanellato la sera dell’8 settembre 1943. Penso che debba essere arrivata dal comandante italiano che immediatamente ritirò le guardie e ci premise di evacuare il campo quella stessa notte. Non c’è dubbio che agì secondo gli ordini dello stato maggiore italiano, in accordo con i termini dell’Armistizio. Questo gli costò caro dato che i tedeschi lo arrestarono quando arrivarono per prendere il commando del campo e lo spedirono in Polonia, tornò alla fine della guerra in condizioni di salute precarie. Non è strano che i tedeschi considerassero gli italiani dei traditori.
Restammo vicino al campo, più o meno nascosti, per ventiquattr’ore. Ovviamente questo non poteva continuare a lungo e ci fu ordinato di disperderci e prendere la strada verso casa. Dovevamo decidere se andare a nord e cercare di entrare in Svizzera, che era il rifugio più vicino (dove saremmo stati internati), dirigerci a sud incontro agli Alleati, o aspettare altri sbarchi – per esempio nel golfo di Genova, che sarebbe stato più vicino.
In quattro decidemmo di partire insieme. Volevamo allontanarci in fretta da Fontanellato e dalla popolosa valle del Po, ci incamminammo in direzione di Genova. Passammo almeno una notte all’aperto e non ricordo come scegliemmo il primo posto dove chiedere aiuto, ma la scelta si rivelò molto fortunata. Apparteneva a un piccolo proprietario terriero, il signor Borioni, un uomo sui sessanta con figli grandi, alcuni dei quali vivevano con lui. Penso che avesse anche un genero (che non era presente) che era ufficiale dell’esercito.
Fummo accolti molto bene. L’atmosfera era euforica. Gli italiani odiavano sia la guerra che i tedeschi e, incoraggiati dalla propaganda radiofonica degli Alleati, credevano che la liberazione fosse molto vicina. Questa famiglia era sorprendentemente gentile, un assaggio di quello che avremmo incontrato lungo tutto il viaggio. Con generosità ci diedero cibo, letti e ci vestirono con abiti civili in modo da poterci muovere destando meno sospetti. Tenemmo le nostre uniformi nel caso ci fossero servite. Tutto quello che i nostri ospiti vollero in cambio, e questo si sarebbe dimostrato universalmente vero, era sapere il più possibile di noi e delle nostre famiglie e parlare dei loro parenti nell’esercito o emigranti all’estero. Le foto di mogli e figli erano una moneta di scambio molto preziosa. Io sapevo un po’ di italiano e divenni l’interprete del gruppo. Mi pare che siamo rimasti due giorni in questo accogliente rifugio. Partimmo la sera, il capo famiglia ci accompagnò per un tratto e ci diede la sua benedizione prima di tornare a casa. Lasciammo qualche souvenir militare e un messaggio in cui dicevamo che eravamo stati aiutati molto generosamente e chiedevamo alle forze alleate di ricompensare i nostri ospiti.
Non ricordo bene i due o tre giorni seguenti. Camminavamo a ovest-nord-ovest in una campagna brulla, scarsamente popolata, senza una particolare fretta, sperando di sentire che gli Alleati erano sbarcati nella vicina Genova. Faceva caldo. L’uva stava maturando. Ricordo di essermi lavato e fatto la barba in un torrente di montagna. I comunicati degli Alleati che sentivamo erano ora molto meno ottimistici –la battaglia di Salerno infatti era stata rischiosa – e un altro sbarco sembrava sempre meno probabile. Discutemmo sul da farsi. Pensammo che un gruppo più piccolo avrebbe avuto maggiori possibilità di trovare cibo e alloggio, e decidemmo di dividerci in due gruppi di due. Io rimasi con Philip Morris-Keating della compagnia fucilieri. Ci trovavamo allora nelle vicinanze di Nibbiano.
È difficile fare dopo 40 anni un resoconto dettagliato del nostro viaggio nelle sette settimane che seguirono. Nonostante le inevitabili deviazioni dovute alla configurazione del territorio e la difficoltà di trovare la strada usando una piccola mappa scolastica dell’Italia, abbiamo percorso molte miglia. Dato che non eravamo sicuri della portata del controllo tedesco né di quanto le autorità fasciste fossero state ristabilite nell’Italia occupata dai tedeschi, decidemmo, con precauzione forse esagerata, di restare il più possibile in montagna e di tenerci lontani dalle città. Questo significa che quasi tutto il tragitto fu estremamente arduo e accidentato, e ancor di più mentre attraversavamo gli Appennini. I nostri stivali erano in pessime condizioni e la riparazione ci preoccupava molto. Fortunatamente riuscimmo a farli riparare un paio di volte in modo professionale. Che io ricordi il tempo fu sempre bello e caldo. Immagino che ci siano state delle giornate di pioggia ma, a parte una vicino a Sansepolcro, non ne ricordo. Penso che il tempo sia stato molto bello durante l’estate e l’autunno del 1943, seguì però un inverno molto rigido.
Per quanto riguarda la possibilità di incontrare dei tedeschi, il pericolo maggiore era quando attraversavamo strade e fiumi o strettoie come quella dell’Aquila verso la fine del viaggio; in questi casi ci avvicinavamo con grande attenzione. Di certo non sapevamo che il nostro percorso tra Pievelago e Sansepolcro, attraverso i passi della Futa e del Giogo, passava molto vicino alla famosa linea Gotica dove si sarebbero combattute le grandi battaglie dell’autunno del 1944.
Ora so che i tedeschi avevano già cominciato a perlustrare la zona, ma non li incontrammo. Per cibo e alloggio dipendevamo completamente dagli abitanti che non ci hanno mai deluso. Verso sera cercavamo una fattoria, o meglio una piccola tenuta, il più isolata possibile. Se dovevamo entrare in un villaggio andavamo prima dal prete, che ci diceva dove andare. Di solito avvicinavamo qualcuno nei campi, o bussavamo a una porta, e io spiegavo che stavamo andando a sud, incontro agli Alleati. “Possiamo restare per la notte e avere qualcosa da mangiare?” La risposta sembrava essere sempre, invariabilmente: “Si”. Ricevemmo davvero pochi rifiuti.
Le persone che ci aiutavano erano spesso molto povere, specialmente nel primo tratto del nostro viaggio. Dormivamo nel fienile se eravamo fortunati, o in una stalla se non lo eravamo. Il cibo poteva essere polenta di castagne, pane e formaggio. C’era quasi sempre del vino alla buona. Dove la campagna era più ricca ci davano pasta invece che polenta. A volte abbiamo ricevuto delle prelibatezze come uova o persino pollo. Un’anziana signora cucinò per noi i cannelloni di cui andava giustamente orgogliosa. Due o tre volte, l’ultima da qualche parte vicino a Perugia, ci trovammo in situazioni molto agiate e ci diedero dei letti. Che fossero poveri o se la passassero meglio, i nostri ospiti ci davano sempre qualcosa per iniziare la giornata (ricordo di aver fatto colazione con nocciole e vino) e spesso cibo da portare con noi.
Tutte queste persone correvano notevoli rischi. I tedeschi avevano minacciato pene terribili e si sapeva che erano spietati. Anche se i tedeschi non erano vicini, c’era la possibilità di essere traditi da qualche simpatizzante fascista, al momento sembrava che ce ne fossero alcuni. I nostri ospiti agivano spinti dalla bontà dei loro cuori e dalla carità che la religione aveva insegnato loro. (È giusto pagare un tributo agli sforzi fatti in Italia dalla Chiesa, guidata dallo spesso criticato papa Pio XII, per prendersi cura dei prigionieri).
Tutto quello che potevamo dare in cambio dell’aiuto così generosamente offerto era cantare per la nostra cena; parlare delle nostre case e famiglie, mostrare le nostre foto, guardare le loro e sentire le storie dei loro figli e fratelli nell’esercito che erano spesso a loro volta prigionieri, o dei parenti in America che venivano menzionati molto spesso; e infine, prima di partire, dare loro un biglietto da mostrare alle forze alleate quando fossero arrivate.
Quando l’ospitalità era particolarmente calorosa cercavamo di lasciare un souvenir, come un bottone dell’esercito. Ho dato via la spilla del mio berretto quasi l’ultima notte di libertà. Parlare non è stato un problema per me. Il mio italiano, anche se sgrammaticato, era comprensibile ed è migliorato al pari del mio vocabolario e della mia sicurezza. Era molto interessante notare i cambi nel dialetto mentre passavamo dalla Lombardia alla Liguria, Toscana, Umbria e Abruzzi. Perugia in Umbria era la zona più ricca e anche il cammino fu più facile.
Durante questo lungo viaggio ogni giorno era simile all’altro tranne che per la difficoltà del territorio e la distanza che percorrevamo. Non mi sono rimasti in mente incontri particolari tranne uno improvviso, probabilmente nella fase iniziale, con due Alpini che viaggiavano verso nord. Ci incontrammo faccia a faccia, con nostra reciproca sorpresa, lungo un sentiero di montagna. Udimmo voci di partigiani ma non ne incontrammo mai. Non ero ansioso di andarli a cercare.
Ogni notte era diversa ma più o meno tutte seguivano uno schema, tranne quella che passammo in un monastero francescano a La Verna, vicino a Bibbiena. Molti anni più tardi ci sono ritornato e i ricordi che ho delle due visite sono probabilmente sovrapposti. Ricordo di aver firmato il libro delle visite la prima volta, ma quando ho cercato i nostri nomi durante la seconda visita non li ho trovati. Presumo che siano stati tolti, molto saggiamente. Il cibo sembrava molto buono nella prima visita e inqualificabile nella seconda. Il contrasto si spiega facilmente. Sicuramente abbiamo dormito nelle celle dei monaci in entrambe le occasioni. Ricordo che nella prima visita dopo cena fummo portati in una casa piuttosto grande nelle vicinanze, dove incontrammo una signora italiana molto brillante e un ufficiale che dev’essere stato suo marito o il suo amante. Devono averci trovati piuttosto rozzi nei nostri abiti presi in prestito e sgualciti.
Oltrepassammo Perugia molto velocemente e, dopo un giro snervante attorno alla periferia dell’Aquila, ci dirigemmo a Sulmona. Non sono sicuro se l’abbiamo vista davvero. Il cammino durante quest’ultima parte era di nuovo molto difficile, ma eravamo molto allenati. Era novembre e iniziava anche a fare freddo. Penso di aver passato quella che sarebbe stata la nostra ultima notte di libertà (probabilmente il 9 o 10 novembre) vicino a Roccaraso o forse Pescasseroli.
Ci stavamo avvicinando al combattimento e decidemmo di rimettere le uniformi come precauzione per non farci sparare per errore scambiati per partigiani o spie. Camminammo veloci, fiduciosi che saremmo riusciti a passare.
C’erano carri armati tedeschi che si spostavano sulla strada, nella valle sotto di noi. Poco dopo vedemmo una fattoria con degli uomini che lavoravano sul tetto e decidemmo di chiedere informazioni. Ci avvicinammo e li chiamai in italiano: gli uomini ci guardarono, videro le nostre uniformi e ci puntarono i fucili. Erano tedeschi e ci intimarono di arrenderci. Presi completamente alla sprovvista ci arrendemmo.
I tedeschi ci trattarono degnamente, ma nel fienile dove ci tennero sotto guardia per due o tre giorni incontrammo un altro prigioniero in condizioni molto peggiori. Era un ufficiale italiano che era stato catturato in abiti civili mentre cercava di tornare a casa. Era passato dalla corte marziale e condannato a morte, aveva fatto appello al feldmaresciallo Kesselring, il Comandante in Capo tedesco e stava aspettando il risultato. Faceva buon viso a cattivo gioco, parlava allegramente e giocava a carte. La decisione di Kesselring non era ancora arrivata quando fummo portati via. Temo che sia stata negativa: quando arrivammo a Frosinone, dopo una fredda corsa su una camionetta aperta, vedemmo un altro coraggioso italiano, questa volta in uniforme, con un prete che era venuto a confessarlo prima dell’esecuzione.
Dopo l’Armistizio mia moglie Sylvia dovette attendere mie notizie per molte settimane, e solo per sapere infine che ero prigioniero in Germania.