Sono nata ad Arsiero, un piccolo paese della zona di Valdastico – nella provincia di Vicenza – nel nord Italia.
Sono la penultima di sei figli, di cui cinque femmine: Elda, Lidia, Maria Angela, Luigi, io e Giovanna.
Mio padre, Nereo Betello, era di Casale sul Sile (Treviso) e mia madre, Anna Brazzale, di Caltrano (Vicenza). Si incontrarono durante la Prima Guerra Mondiale e si sposarono a Caltrano nel 1920. Dopo la nascita del primo figlio si trasferirono ad Arsiero.
I miei genitori gestivano una merceria che riusciva a mantenere l’intera famiglia, tanto che poterono mandare tutti i figli in collegio dopo aver completato la scuola elementare ad Arsiero.
Non ricordo molto della mia infanzia, a parte i sei giorni a settimana di scuola e il sabato fascista, quando dovevamo indossare l’uniforme, ascoltare la propaganda degli insegnanti e fare gli esercizi di ginnastica. L’uniforme era composta da gonna nera, camicia bianca, scarpe nere e calze bianche.
Il 18 dicembre 1935, a tutte le donne sposate d’Italia venne chiesto di “donare” il loro anello nuziale alla Patria. In cambio ricevettero un anello d’acciaio con un’incisione che diceva che avevano dato il loro anello al Paese. Mia madre fu costretta ad obbedire per evitare che l’amministrazione fascista boicottasse il negozio. Curiosamente, dopo la guerra, la polizia perquisì le case degli organizzatori di queste donazioni forzate e trovò molti barattoli di vetro pieni di fedi nuziali.
Il 10 giugno del 1940 l’Italia entrò in guerra fianco della Germania.
Le cose cambiarono rapidamente rendendo la vita ogni giorno più difficile. Tutti dovevano contribuire allo sforzo bellico e alle bambine veniva insegnato a lavorare a maglia per fare vestiti caldi per i soldati al fronte. Alcune di queste ragazze venivano incoraggiate a corrispondere con un soldato a loro scelta, diventando “madrine di guerra”.
Io scrissi ad un giovane soldato di una valle vicino ad Arsiero. Quando tornò dalla Russia nel 1942 venne a trovarmi a scuola e mi portò un regalo: il libro “Lisa Betta” scritto da Giuseppe Fanciulli, un autore di libri per bambini.
Tutto il cibo era razionato e cominciò rapidamente a scarseggiare, ma chi aveva i soldi per pagare cifre esorbitanti poteva ancora procurarsi quasi tutto quello che voleva.
Le persone non spendevano più come un tempo e i commercianti, come la mia famiglia, ne risentivano.
Nel 1943 arrivarono in Italia alcuni ebrei sfuggiti alle persecuzioni dei Tedeschi nell’Europa centrale. Un gruppo venne ad Arsiero e alcuni di loro si trasferirono a casa nostra: con il permesso di mio padre vennero a vivere nella nostra soffitta.
Li vedevamo raramente perché uscivano di casa solo la notte e a noi era stato proibito di salire in soffitta. Secondo le leggi del governo fascista, tutti gli ebrei dovevano essere denunciati alle autorità e gli era permesso muoversi solo entro i limiti stabiliti dalle autorità locali.
Quando mia sorella Giovanna ed io chiedemmo chi fossero quelle persone, i nostri genitori ci dissero che erano lontani parenti che avevano bisogno di un posto dove stare perché la loro casa era stata distrutta dai bombardamenti. I nostri genitori temevano che ci lasciassimo sfuggire qualcosa che avrebbe potuto portare all’arresto immediato dei nostri ospiti e dei nostri genitori. Avevamo solo 11 e 12 anni. Mia sorella Elda, un’ottima pianista, spesso suonava per i soldati tedeschi al piano terra mentre la famiglia degli ebrei si nascondeva in soffitta.
L’8 settembre 1943 il governo italiano firmò la resa e lasciò Roma per rifugiarsi nel sud Italia. Poco dopo tutte le famiglie di ebrei, compresa quella che viveva nella nostra soffitta, scomparvero dal paese. Se ne andarono senza nemmeno salutare. Non ricevemmo più loro notizie fino a dopo la guerra, quando mio padre ne vide uno camminando per le strade di Vicenza, uno slovacco chiamato Markus che noi chiamavamo Marco.
Quando mio padre si avvicinò per salutarlo lui disse di non ricordarsi di lui. Mio padre fu sconvolto dalla sua reazione dopo tutto quello che aveva fatto per lui, rischiando la sua vita e quella di tutta la sua famiglia.
Per sopravvivere molti diedero fondo ai propri risparmi che però finirono rapidamente. Gli scontri erano ancora molto distanti e non preoccupavano quanto la scarsità di provviste, ma verso la fine del 1943 le cose sarebbero cambiate drammaticamente.
Nel 1943 gli Alleati occuparono il nord Africa e poco dopo sbarcarono in Sicilia e Calabria. L’Italia era divisa in due. Il sud era occupato dagli Alleati che lottavano per risalire verso il nord. Il centro ed il nord erano occupati dai Tedeschi. Il partito fascista, risorto sotto la guida di Mussolini (dopo essere stato liberato dai Tedeschi dalla sua prigionia sulla Maiella, una zona montuosa negli Appennini centrali) formò una repubblica con l’appoggio di Hitler.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre la maggior parte dei soldati italiani che servivano in Italia e nei paesi europei occupati vennero catturati dai Tedeschi e portati in Germania per sostituire i soldati Tedeschi al fronte.
Molti soldati abbandonarono l’uniforme e indossarono vestiti civili nella speranza di evitare di essere catturati dai Tedeschi che pattugliavano città e campagne. Ricordo mia madre dare uno dei vestiti di mio padre ad un giovane che stava cercando di tornare dalla sua famiglia nel sud – non abbiamo mai saputo se sia riuscito ad arrivare a casa.
I giovani che riuscivano a tornare a casa si organizzavano in gruppi combattenti di partigiani.
Mio fratello Luigi non era stato arruolato perché troppo giovane ma divenne un corriere per uno dei principali gruppi di partigiani che faceva base nelle montagne vicine. C’era sempre il rischio di essere catturati perché i Tedeschi avevano diverse spie ben pagate fra la popolazione.
Una notte Luigi uscì con un amico, armato del mattarello di mia madre, in cerca di un fascista considerato una pericolosa spia. Lo trovarono e, in un vicolo buio, lo assalirono malmenandolo, lasciandolo poi malconcio per strada.
Il giorno dopo la notizia era sulla bocca di tutti. Mio padre, un uomo molto onesto ma alle volte troppo fiducioso, entrò in cucina dichiarando che i responsabili di un atto tanto atroce non erano altro che criminali, senza realizzare che il suo stesso figlio era uno degli aggressori.
Quel mattarello è appeso alla parete nel nostro salotto, un souvenir del mio passato.
La nostra casa divenne un rifugio per alcuni dei capi partigiani. Mio padre chiedeva sempre a Luigi chi fossero e lui immancabilmente rispondeva. “E’ uno dei miei professori del collegio”. Ancora una volta mia sorella Elda si trovava a suonare il pianoforte in salotto per i soldati Tedeschi senza che questi si accorgessero che al piano di sopra mio fratello stava discutendo di strategie con gli altri partigiani.
La situazione si fece ancora più seria nell’agosto del 1944. Al tempo i Tedeschi impiegavano tutti gli uomini in grado di lavorare nel Todt, il corpo militare responsabile per la costruzione di una nuova linea difensiva, la Blau Linie, l’ultima prima che gli alleati potessero entrare in Germania da sud. Mio fratello fu costretto ad andare, così come tutti gli altri partigiani, perché era impossibile superare l’inverno senza lavoro.
Poco dopo, circa cinquanta ucraini del 263° Battaglione Est marciarono sotto casa mia e si stabilirono ad Arsiero: il loro compito era di catturare qualunque partigiano si nascondesse nei boschi.
La città era piena di soldati: quelli della Wermacht che proteggevano il lavoro della Todt, gli Ucraini e i Fascisti.
Un giorno un soldato Tedesco membro della Todt uscì per un giro a cavallo. U’ora più tardi il cavallo tornò da solo. Il corpo del soldato venne ritrovato più tardi, con un foro di proiettile in testa. Venne riportato ad Arsiero dove la popolazione condannò all’unanimità quel gesto codardo e fortunatamente non ci furono rappresaglie da parte dei Tedeschi.
I Fascisti e gli ucraini perquisivano di frequente le case in cerca di partigiani ma i Tedeschi capirono che era uno scontro perso in partenza. I lavoratori alla Todt stavano solo aspettando la fine della guerra. Alcuni se ne andarono per unirisi ai partigiani e dopo l’inverno i Tedeschi e i Fascisti lanciarono un assalto massiccio contro i ribelli. Poco dopo il fronte Tedesco capitolò e i soldati disertarono i propri posti nella speranza di riuscire a tornare a casa. Gli ultimi Tedeschi a lasciare Arsiero minarono e fecero saltare la ferrovia, uccidendo un giovane che stava andando a comprare farina. Era tornato a casa solo diciotto mesi prima dopo aver combattuto sul fronte russo.
Radio Londra diceva che i Tedeschi dovevano essere fermati perché avevano saccheggiato molti tesori dai musei italiani ma, quando i partigiani attaccavano, i Tedeschi rispondevano: per ogni Tedesco venivano uccisi dieci partigiani.
Pedescala, un paese a pochi kilometri a nord di Arsiero, fu teatro di una vendetta terribile. Come ritorsione per un numero imprecisato di Tedeschi uccisi, i Tedeschi massacrarono 64 persone, incluse donne e bambini, bruciando i loro corpi e la maggior parte del paese.
Mio padre si recò a Pedescala dopo questa tragedia assieme al parroco Mons. Campi e al dottore del paese Dott. Costalunga. Quando tornò, per diversi giorni rimase chiuso in casa, sotto shock, senza dire una parola.
Mio fratello venne fermato dai Tedeschi mentre camminava verso la chiesa di un paese vicino chiamato Forni e portato assieme ad altri a Sette Ca’ dove li costrinsero a camuffare dei camion.
Poi gli presero documenti, orologi e gioielli. Li rinchiusero in una piccola stanza e, una volta chiusa la porta, gettarono dentro delle bombe a mano e aprirono il fuoco con le mitragliatrici. Un anziano, sanguinante dal collo, cadde addosso a Luigi proteggendolo col suo corpo. Luigi sentì un dolore acuto alla caviglia e capì di essere stato colpito da una scheggia. Riuscì in qualche modo a salire le scale al piano superiore assieme ad un altro paio di persone e quando vide salire il fumo capì che l’edificio aveva preso fuoco. I Tedeschi da fuori sparavano alle gambe dei sopravvissuti.
Dal piano di sopra riuscì a sgattaiolare da una piccola finestra e lasciarsi cadere in una pozza di acqua e fango. Una sentinella Tedesca li vide allontanarsi dalla zona e diede l’allarme ma era troppo tardi, erano già riusciti a scappare.
Diciannove persone furono uccise quel giorno.
Luigi tornò a casa ma gli ci volle molto tempo per riprendersi da quell’esperienza traumatica.
Subito dopo la fine della guerra bisognava trovare lavoro e cominciare a ricostruire tutto quello che era stato distrutto. Tutte le fabbriche della zone erano quasi completamente distrutte e si faceva fatica a trovare lavoro. Ma con otto persone in famiglia il negozio non era più sufficiente. Avevamo fatto credito a molti clienti durante la guerra ma per la maggior parte non venne pagato e fummo costretti a chiudere.
A quei tempi molti giovani della zona emigravano verso l’Australia. Mia madre aveva un fratello emigrato ad Adelaide, nell’Australia del sud, nei primi anni venti, che si offrì di aiutare Luigi ad emigrare a sua volta. Il piano era di far seguire l’intera famiglia se le cose gli fossero andate bene.
Luigi lasciò Arsiero nell’ottobre del 1950 dopo che le mie sorelle Maria Angela e Lidia si sposarono.
Il 23 maggio 1952 Elda, Giovanna ed io lasciammo l’Italia sulla nave Neptunia per stabilirci ad Adelaide grazie ai biglietti pagati dallo zio.
Nel maggio del 1954 Elda si sposò e poco dopo anche i nostri genitori arrivarono ad Adelaide dove comprammo una casa nella periferia di Hackney.
Nel settembre del 1956, Virgilio Panozzo arrivò da Tresche Conca (Vicenza). Ci eravamo incontrati e frequentati in Italia prima che io ricevessi il permesso per emigrare in Australia e da allora ci eravamo tenuti in contatto per lettera. Ci sposammo il 6 maggio del 1957 e comprammo una casa nella stessa zona.
Mio fratello Luigi divenne uno dei testimoni di Virgilio al matrimonio visto che avevano frequentato la stessa scuola e si conoscevano da prima della guerra.
Nel 1963 Virgilio concluse la sua carriere universitaria laureandosi come architetto: fu il primo Italiano a diplomarsi in architettura in Australia.
Nel febbraio del 1959, Maria Angela arrivò dall’Italia con il marito e i loro due figli.
Abbiamo avuto la gioia di avere quattro figli ed ora siamo orgogliosi nonni di undici nipoti.
Solo Lidia è rimasta in Italia e da quando ci ha lasciati, qualche anno fa, la famiglia Betello è di fatto diventata Australiana.
Ho visitato l’Italia con mio marito molte volte. Nel 2015 abbiamo passato una settimana ad Arsiero. Volevo rivedere la chiesa dove sono stata battezzata e sentire ancora le campane che avevano accompagnato la mia vita lì.
Tradotto da Michele Ronchini